Mario Venuti è un grande e sono in troppi a non essersene ancora accorti. Uso "grande" non a caso e per una serie di motivazioni: il ruolo fondamentale nei Denovo, la ricerca e le sperimentazioni dei primi album, l’aver portato qui un po’ di Brasile in tempi non sospetti, l’essere sempre cresciuto album dopo album.
Così l’ultimo disco in studio fin qui pubblicato - il nuovo arriverà dopodomani (e persino quegli amabili snob del Mucchio gli danno un voto altissimo, sono molto curioso!) - coincide con il suo lavoro migliore, anche se non si tratta del più venduto.
Sto parlando di “Magneti”, l’album del 2006 a cui seguirono due tour, il secondo dei quali - il Sulu Tour - fu davvero sorprendente e convincente nella difficile sfida (vinta!) di una tournée tutta “da solo” voce e chitarra.
Ogni suo disco – e questo più di tutti – mostra una sempre maggior maturità artistica, capacità comunicativa e crescita, sia musicale, sia nel modo di affrontare i temi e sviluppare i testi.
Venuti, come altri suoi colleghi della stessa generazione, paga un po’ il prezzo del suo muoversi e volare in quel limbo tra la migliore musica pop nostrana e la canzone d’autore, non risultando mai così commerciale da sfondare le classifiche (salvo la bella eccezione di “Veramente”, dall’album precedente) e mai sfacciatamente colto (o, se vogliamo, serioso) da venire accolto senza remore nel mondo della musica d’autore nella sua visione più tradizionale.
Magneti invece ha proprio il pregio di essere uno splendido disco pop – quasi tutti i pezzi sarebbero potenziali singoli (e 4 lo furono davvero) - scritto, suonato e cantato da uno dei migliori cantautori della sua/nostra generazione.
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